La storia dell’autismo è costellata di errori, compiuti talvolta anche in buona fede, e di inganni.
Il primo errore.
Baltimora (USA), John Hopkins University, 1943. Leo Kanner (1894-1981) – psichiatra austriaco emigrato negli Stati Uniti nel 1928 e considerato il fondatore della psichiatria infantile – formula la prima descrizione del disturbo autistico, sulla base dell’osservazione di undici bambini, nove maschi e due femmine. A lui va il nostro ringraziamento, per aver per primo acceso l’interesse sulla ricerca.
La sua descrizione sintomatologica è pregnante e valida tutt’oggi, ma la sua ipotesi di attribuzione causale come disturbo del contatto affettivo non lo è. A cosa fu dovuto l’errore? Fu un errore di campionamento, dovuto sia all’esiguo numero di soggetti, sia alla loro provenienza: non c’erano, fra questi bambini, né figli di minatori della Pennsylvania, né figli di agricoltori del MidWest, né di blue collars di Detroit, né tantomeno figli di raccoglitori di cotone dell’Arkansas o della Louisiana.
Erano tutti figli di persone della middle class bianca urbana, professionisti con status socio-economico medio alto, quindi ben curati, educati, con genitori educati e socialmente controllati. Questo primo errore, compiuto in buona fede, di cui in seguito – nel 1969 – Kanner si scuserà pubblicamente, darà il via alla nefasta teoria psicogenetica dell’autismo.
Secondo errore.
1967. È l’anno di pubblicazione di “The Empty Fortress: Infantile Autism and the Birth of the Self” – in italiano “La fortezza vuota: l’autismo infantile e la nascita del sé”, edito da Garzanti, a Milano, nel 1976 – il libro di Bruno Bettelheim (1903-1990) che costituirà la base della teoria psicogenetica dell’autismo e delle conseguenti “terapie” psicoanalitiche. La mamma è presentata come la principale responsabile del disturbo del figlio. Di conseguenza, la terapia si basa sull’allontanamento del figlio dai genitori (parentectomia).
Il primo grande inganno.
Leggendo la storia successiva di Bettelheim (Richard Pollak, “The Creation of Dr. B: A Biography of Bruno Bettelheim”, Simon & Schuster, New York, 1st Ed. 1997) e di tutte le falsità e violenze che hanno costellato la vita di Bettelheim, più che di errore sembra opportuno parlare di inganno.
Una felice primavera.
Primi anni ’80. L’inverno sembra che stia passando e si annunci la primavera. La teoria eziologia psicogenetica è destituita di fondamento dalle ricerche di Sir Michael Rutter e Lorna Wing, nel Regno Unito, e dello Yale Child Study Center, negli Stati Uniti.
Il DSM III classifica, finalmente, l’autismo come disturbo pervasivo dello sviluppo, togliendolo alla classe psichiatrica della schizofrenia infantile – tanto cara alla psicoanalisi – mentre Ivaar Lovas alla UCLA lancia il suo Young Autism Project, dimostrando la possibilità di sviluppare abilità intellettive e comunicative con interventi intensivi precoci (EIBI).
Frattanto, in North Carolina, Erik Schopler aveva messo a punto già da tempo il programma TEACCH, un programma educativo statale in grado di rispondere alle necessità di individui con autismo usando i migliori approcci e metodi disponibili a seconda delle abilità emergenti della persona, un programma che si diffonde pian piano anche in Italia grazie al lavoro pionieristico di Enrico Micheli. I soggetti con autismo, insomma, cominciano a essere trattati in modo educativo e non più psichiatrico-psicoterapeutico.
Il secondo grande inganno.
1997. Lancet, prestigiosa rivista di medicina, pubblica un articolo a firma di un medico inglese e di altri dodici colleghi, nel quale si osserva l’insorgenza del disturbo autistico a seguito della vaccinazione trivalente in dodici casi di bambini precedentemente sani, vaccinazione che viene quindi ritenuta uno dei fattori dell’insorgenza del disturbo autistico. È l’inizio della psicosi sui rischi vaccinali, dell’esplosione mediatica dei movimenti no-vax e delle cause in tribunale.
La ricerca del colpevole, il vaccino, la richiesta di risarcimenti ai sistemi sanitari dei vari stati per i danni ricevuti: un fenomeno psicologicamente anche comprensibile, se non fosse che la ricerca di Wakefield è stata dimostrata essere un falso, una ipotesi priva di fondamento, fondata su dati falsi, pubblicati a scopo fraudolento. Negli anni successivi, i coautori ritirano la loro firma, la ricerca è ritirata da Lancet, cioè è come se non fosse mai stata pubblicata, Wakefield è radiato dall’ordine dei medici: ma il danno ormai era fatto e, per molti seguaci di quella fraudolenta ipotesi, l’ex dottore è diventato un martire della scienza.
Centinaia di ricerche negli anni successivi, su milioni di dati, hanno dimostrato la totale mancanza di relazione tra autismo e vaccini, ma non c’è dato che tenga se uno vuole credere agli unicorni.
Passi avanti e un altro inganno.
Anni Duemila. Gli interventi comportamentali intensivi precoci – che, nel frattempo, negli Stati Uniti, sono diventati molto popolari e si sono evoluti in direzione naturalistica ed evolutiva, diventando meno strutturati rispetto a quelli di prima generazione – si diffondono progressivamente anche in Italia, Paese piuttosto refrattario alla visione scientifica sottostante tali interventi.
L’Istituto Superiore di Sanità pubblica, nel 2011, una Linea Guida (LG 21) che definisce i trattamenti efficaci per l’autismo e anche quelli non solo inefficaci ma anche potenzialmente dannosi. Tra i trattamenti efficaci, ci sono gli interventi educativi e comportamentali (ABA, Parent Training, interventi comportamentali evolutivi, TEACCH).
Tra gli interventi non raccomandati ci sono la comunicazione facilitata, le diete senza caseina/glutine, gli integratori, la chelazione e la camera iperbarica. Traguardo raggiunto, finalmente? No, ci sono ancora molte barriere, sotto forma di interessi cristallizzati di varia natura. Inoltre, manca una cultura scientifica radicata e forte e, infine, manca un dispositivo di legge nazionale che renda cogente l’applicazione delle buone pratiche suggerite dalla LG, posto che le singole regioni sono autonome per la Sanità. Insomma, in molte regioni le indicazioni della LG rimangono lettera morta.
Due ulteriori inganni.
Inoltre, anche laddove le strutture sanitarie – su pressione delle associazioni di persone e famiglie con autismo e disabilità intellettive ed evolutive – cercano diligentemente di mettere in pratica le raccomandazioni dell’ISS, nasce un altro problema: la formazione del personale che dovrebbe erogare questi interventi è inadeguata.
Per essere più precisi: l’organico della maggior parte delle Unità di Neuropsichiatria è carente, numericamente oltre che qualitativamente, sicché è insufficiente ad affrontare l’emergenza autismo: stiamo parlando di numeri importanti, dato che la prevalenza del disturbo in Italia è stimata intorno al 1% della popolazione, ed è in probabile crescita. Non dimentichiamo, peraltro, che tali numeri si sommano alle patologie già in carico alle Unità di Neuropsichiatria: sindromi genetiche, epilettologia, ADHD, disturbi specifici dell’apprendimento, ecc.
Rimangono due strade: affidarsi a consulenti specializzati nelle metodiche sopra descritte, pagati privatamente o con rimborsi pubblici esigui, e senza sufficienti garanzie di preparazione professionale, e/o adire le vie legali, costringendo le ASL, AUSL, AULSS, ASP, ATS, ecc. – ogni Regione ha nomi diversi per chiamare chi gestisce i servizi, e già questo la dice lunga – a pagare il rimborso totale degli interventi terapeutici che, per mancanza di personale specifico, esse stesse non sono in grado di erogare direttamente.
Nel primo caso, l’enorme sproporzione tra domanda e offerta apre una prateria a consulenti di dubbia preparazione e a consulenti stranieri preparati, ma abituati a lavorare in contesti sociali – scuola, centri sanitari – molto diversi da quelli italiani e, in generale, europei.
Il problema della preparazione non è nuovo, si è verificato in altri Paesi, compresi gli Stati Uniti, dove però è stato risolto con le certificazioni di competenza professionale minima rilasciate da società private e riconosciute dalle assicurazioni, a loro volta enti privati. In Italia e nell’Unione europea, ciò non è possibile, stante il sistema di welfare pubblico e il valore legale dei titoli di studio.
A ogni modo, gli specialisti ben preparati sono ancora troppo pochi per poter incidere in maniera significativa a livello di sistema curante generale: lo standard rimane quello delle 2 sedute settimanali di logopedia-psicomotricità, uno standard che la letteratura internazionale giudica nettamente insufficiente per le esigenze specifiche del disturbo autistico.
Per quanto riguarda la seconda ipotesi – adire le vie legali – va notato che i procedimenti si concludono generalmente con successo, ma – come si diceva – anche qui c’è un altro inganno: è una procedura costosa, che non tutti i genitori possono permettersi, e poi è lunga. Difatti, spesso le Aziende Sanitarie fanno opposizione, passa del tempo, nel frattempo i bambini crescono e l’efficacia degli interventi precoci si affievolisce con l’aumentare dell’età.
Inoltre, non è alla portata di tutti la conoscenza degli interventi necessari, in quanto mancano centri di riferimento, come accade per altre patologie anche gravi, che indirizzino i genitori – sotto shock per la diagnosi appena ricevuta – verso un percorso terapeutico certo. Sappiamo bene che, navigando in Internet, si trovano molte informazioni utili – se già si sa cosa cercare – molte informazioni discordanti – che confondono – e tanta spazzatura. Per far causa all’ASL, bisogna sapere che c’è un intervento d’elezione e che, se questo intervento non viene erogato, si ha diritto a chiederne il pagamento privato.
Un inganno e un errore.
Data la mancanza numerica di operati formati, alcuni centri pubblici e privati hanno sposato l’idea di fornire interventi intensivi di formazione dei genitori, che in un paio di settimane dovrebbero diventare i terapisti dei propri figli. Per apprendere a disegnare un intervento individualizzato in un disturbo complesso come l’autismo, ci vogliono ben più di quindici giorni di training. Al massimo, si può apprendere come (re)agire in alcune situazioni problematiche o come mettere in atto alcune semplici procedure, progettate da uno specialista.
Non è però giusto pensare di scaricare totalmente sui genitori, che già vivono una condizione di grande sofferenza, anche la responsabilità degli interventi, di fatto costringendoli in tal modo ad abdicare al loro ruolo principale, quello di genitori.
Il supporto ai genitori e il loro coinvolgimento nell’intervento sono momenti fondamentali ma non sostitutivi. E quando parliamo di supporto intendiamo non solo l’aspetto tecnico, ma anche il sostegno emotivo e psicologico, come hanno dimostrato molti modelli psicoterapeutici, non psicoanalitici, basati su accettazione e flessibilità psicologica, atteggiamento compassionevole e coraggio: ricordiamoci che, soprattutto nel campo dell’autismo, c’è un mondo oltre la psicoanalisi.
Due punti fermi.
Sembrerebbe uno scenario senza speranza, una via senza uscita. Non è così. Servono due cose, entrambe appartenenti al reame del possibile: una linea di ricerca scientifica con obiettivi definiti e una chiara volontà politica di sostegno a questa linea.
La linea di ricerca deve provare a definire qual è il miglior punto di equilibrio tra efficacia di un trattamento intensivo precoce e la sua sostenibilità reale, in termini di ore/costo. Consapevole di correre il rischio di essere tacciato di sovranismo (l’ultimo dei miei desideri!) chiarisco che questa ricerca applicata deve essere italiana, cioè deve tener conto del contesto sanitario, educativo e sociale del nostro Paese: servizi per l’infanzia e l’adolescenza, scuola, privato sociale, regionalità, contesto sociale.
Parallelamente a questa linea di ricerca, è necessario creare – a livello europeo – un profilo professionale entry level che sia preparato a erogare interventi basati sull’efficacia e che possa essere riconosciuto e inserito nell’organico sanitario dei singoli Paesi: qualcosa di simile al progetto IAPT in Gran Bretagna.
Negli anni ’90 tematiche di questo genere erano oggetto di Progetti Speciali del CNR: andrebbero riproposti. Oggi, questo lavoro può essere realizzato solo coinvolgendo il maggior numeri di partner europei.
Quanto descritto finora non è né delirio e neanche un sogno a occhi aperti. Esistono già esperienze significative: il progetto NOAH dei centri di riabilitazione “La Nostra Famiglia”, il progetto Fobap-UONPIA di Brescia, il progetto Zerouno dell’ASP di Palermo, per quanto riguarda i modelli di intervento; il progetto Erasmus+ guidato dall’Università dell’Ulster, cui partecipano quattordici Paesi europei, fra cui anche l’Italia, per quanto riguarda i profili professionali.
È chiaro che senza un impegno e intervento della politica – intesa come l’attività che stabilisce obiettivi strategici per la popolazione e le istituzioni di un Paese – tutto ciò fa fatica a partire.
Tuttavia – se stakeholders, associazioni di famiglie, privato sociale, testimonial come il giornalista Gianluca Nicoletti e Stefano Belisari, frontman della band “Elio e le Storie Tese” riescono a coordinare la loro azione – la forza congiunta di tutti questi corpi non è affatto da sottovalutare.